Il paziente cardiopatico dal dentista
Il significativo aumento della vita media cui stiamo assistendo ha, di fatto, cambiato lo scenario generale portando con sé un proporzionale incremento di patologie attive nello stesso soggetto che richiedono, oltre tutto, trattamenti farmacologici cronici.
L’odontoiatra si trova dunque, suo malgrado, sempre più spesso a fronteggiare clienti che si rivelano essere pazienti complessi, con differenti comorbidità e terapie farmacologiche di corollario, che possono incidere, anche, sul rischio operatorio.
Nei paesi occidentali, per questioni legate anche allo stile di vita, queste problematiche sono principalmente di tipo cardiologico e con queste si deve, quindi, confrontare l’odontoiatra nel momento in cui si appresta a somministrare delle cure specifiche in soggetti che presentano un aumentato rischio operatorio. Per tale motivo l’inquadramento del paziente del paziente cardiologico nell’ambito di uno studio dentistico può generare, a ben ragione, dubbi e perplessità operative. Il presente breve articolo si propone lo scopo di fare un po’ di chiarezza nella letteratura cardiologica sulle raccomandazioni utili agli odontoiatri per il management del paziente cardiologico in uno studio odontoiatrico. Gli argomenti di seguito affrontati si ritiene siano relativi alla gestione delle più comuni problematiche inerenti all’interazione tra le cardiopatie e l’interventistica odontostomatologica.
Endocardite infettiva, un pericolo potenziale che accompagna le procedure chirurgiche
Per endocardite infettiva si intende un’infezione dell’endocardio, il tessuto che riveste le cavità interne del cuore, incluso le valvole, a eziologia multipla, con presentazione clinica e andamento polimorfo. Quest’infezione riconosce in prevalenza agenti eziologici batterici, tra questi nel 50-80% si riconoscono gli Streptococchi viridans, che comunemente abitano la cavità orale, faringe e prime vie respiratorie e, nel 20-30% gli Stafilococchi aureus ed epidermidis, che si trovano facilmente sulla cute. A ragione, dunque, si ritiene che tutte le procedure chirurgiche che possono provocare batteriemia anche transitoria, per contaminazione, possono aumentare il rischio di endocardite. Nel valutare il rischio si devono, ovviamente, prendere in considerazione le caratteristiche del paziente e la tipologia dell’intervento; in questo contesto si inserisce pienamente la profilassi antibiotica peri-operatoria in corso di procedure chirurgiche, intesa come somministrazione di antibiotici nel corso delle due ore precedenti l’incisione, per garantire una concentrazione nel siero e nei tessuti idonea a controllare un’eventuale batteriemia. Si tratta di una procedura ormai consolidata, la cui efficacia è stata dimostrata anni or sono su una grande casistica di soggetti sottoposti a procedure chirurgiche elettive, sia in campo “pulito” che già “contaminato” da infezione. Sono indicate somministrazioni successive solo in caso di interventi che, in termini di durata, superino di 2-3 volte il tempo di emivita dell’antibiotico. Va altresì detto che l’epidemiologia dell’endocardite infettiva sta cambiando a causa di una serie di fattori, tra cui l’introduzione di nuovi antibiotici e il loro più frequente utilizzo, la comparsa di microrganismi resistenti e l’aumento degli impianti di dispositivi cardiovascolari.
Traslando le indicazioni in ambito odontoiatrico, delle linee guida del 2007 e del 2010 dell’American Heart Association e dell’American College of Cardiology per la prevenzione e la gestione dell’endocardite infettiva e per la gestione delle infezioni di dispositivi cardiovascolari e da documenti di consenso successivi, si evince, in effetti, che richiedono la profilassi per l’endocardite solo i pazienti:
– Con precedente endocardite;
– Con protesi valvolari;
– Sottoposti a trapianto cardiaco con valvulopatie;
– Con malattia cardiaca congenita cianogena non operata;
– Sottoposti a riparazione chirurgica o transcutanea, completa/incompleta, con materiale protesico.
È bene ricordare che batteriemie transitorie si verificano non soltanto durante procedure invasive, ma anche in seguito al semplice lavaggio dei denti o all’uso del filo interdentale; si tratta, tuttavia, di batteriemie di basso grado e di breve durata. Come è noto, infatti, la batteriemia denota la presenza di batteri nel torrente sanguigno – emocoltura positiva – non necessariamente associata a manifestazioni di interessamento sistemico. Tuttavia, in pazienti con un cattivo stato della salute dentaria, le batteriemie si possono osservare indipendentemente dalle procedure dentarie, a maggior ragione quelle post-procedurali, e saranno più elevate in questo gruppo; buona, dunque, la pratica di effettuare sciacqui con clorexidina allo 0.12 o 0.2% per 1 minuto prima di ogni intervento odontoiatrico e, in ogni caso, una buona igiene orale rimane sempre la migliore profilassi. Tra i microrganismi tipici delle endocarditi, infettive, si riconoscono, appunto, gli Streptococcus viridans, componenti la microflora orale e ben noti agli odontoiatri; tra questi vengono incluse specie quali gli streptococchi Sanguis, Mitis, Salivarius, Mutans e Gemella Morbillorum, commensali del cavo orale che generalmente concorrono alla formazione della placca dentale, carie dentale, parodontopatie e, inoltre, alle forme di endocardite batterica sub-acuta. La maggior parte di loro è suscettibile alla terapia antibiotica con penicilline, salvo i casi di resistenza.
Profilassi antibiotica, per chi?
L’elevata morbidità e mortalità che contraddistingue l’endocardite infettiva, specialmente nei pazienti cosiddetti ad alto rischio, giustificano, dunque, l’interesse delle linee guida per questa condizione morbosa e in particolare per coloro che devono essere sottoposti alla manipolazione del tessuto gengivale, della regione peri-apicale del dente, in cui si ha una perforazione della mucosa orale, o che, comunque, si sottopongono a procedure in siti infetti.
In una corretta valutazione del rapporto rischio-beneficio di una strategia preventiva, quale la profilassi con antibiotici, è bene comunque ricordare che:
– Un inappropriato uso delle terapie antibiotiche può favorire l’emergenza di microrganismi resistenti;
– La somministrazione di antibiotici nella profilassi, di per sé, comporta un lieve aumento nel rischio di anafilassi, pertanto risulta di fondamentale importanza effettuare un’accurata selezione dei pazienti da porre in terapia preventiva antibiotica.
Le linee guida, infatti, raccomandano la profilassi antibiotica esclusivamente nei soggetti a più alto rischio in quanto associati a un out-come avverso in seguito a endocardite infettiva.
Complicanze cardiache maggiori post-operatorie nel cardiopatico
Le complicanze cardiache dopo chirurgia dipendono dal profilo globale di rischio del paziente, dal tipo di intervento e dalle sue caratteristiche quali emergenza, grado di complicanze e durata. Va ricordato che tutti i pazienti con patologie cardiovascolari, indipendentemente dal rischio infettivo ricordato in precedenza, presentano un rischio potenziale di complicazioni, anche fatali, durante procedure chirurgiche comprese, quindi, quelle odontoiatriche. Gli interventi chirurgici vengono raggruppati in tre categorie di rischio – basso, intermedio e alto – correlate all’incidenza di infarto e morte cardiaca entro i 30 giorni. In seguito a un intervento odontostomatologico, il rischio stimato in un paziente con cardiopatia stabile e asintomatico risulta essere < 1%. In ragione di questo rischio relativamente basso, difficilmente i risultati di eventuali test diagnostici/provocativi potranno modificare la gestione peri-operatoria, pertanto non sono raccomandati test specifici prima dell’esecuzione di una procedura odontoiatrica. Al contrario, nel paziente con cardiopatia instabile le evidenze relative alla chirurgia elettiva sottolineano l’utilità di eseguire dei test preliminari, quali un elettrocardiogramma e un ecocardiogramma basali e, in caso di coronopatia, di procedere con l’iter diagnostico e terapeutico posticipando la procedura. Inutile ricordare che lo stesso approccio si deve riservare a tutti i pazienti che vanno incontro a procedure chirurgiche a medio o alto rischio di complicanze cardiovascolari, anche se non cardiopatici noti. Ovviamente in presenza di procedure chirurgiche urgenti, indipendentemente dalla complessità della procedura e delle condizioni del paziente, ci si assume in toto il rischio operatorio elevato, essendo limitate le possibilità di controllarlo in via preventiva. In sintesi, una valutazione del rischio operatorio si rende necessaria anche per le procedure odontostomatologiche in elezione, con un’attenzione particolare al cardiopatico e alla sua condizione di compenso e stabilità emodinamica. Sviluppo di ipertensione arteriosa durante l’anestesia locale Ogni intervento induce una risposta allo stress mediata da trasmettitori neuroendocrini che, sebbene con una notevole variabilità individuale, si associa a tachicardia e a incremento dei valori pressori anche in soggetti sani e normotesi. In soggetti affetti da ipertensione arteriosa il frequente utilizzo in ambito odontoiatrico dell’epinefrina, in genere 1:100000, insieme all’anestetico per via locale, allo scopo di aumentare durata e profondità dell’anestesia e di ridurre il sanguinamento nel campo operatorio, può ulteriormente incrementare il rischio di sviluppare una crisi ipertensiva e/o interferire con la terapia in atto. A questo riguardo non vi sono studi definitivi che possano fornire indicazioni precise sul comportamento più sicuro da adottare; un report di qualche anno fa sulle evidenze disponibili riporta un modesto incremento pressorio legato all’uso dell’epinefrina nei soggetti ipertesi (+4 mmHg; fc + 6 b/min), addizionale rispetto all’aumento che già si osserva nei soggetti normotesi (+11.7 mmHg; fc +4.7 b/min). E’ bene comunque sottolineare che i soggetti ipertesi spesso presentano un cluster di fattori di rischio e specialmente in coloro che non sono bene controllati dalla terapia ci si possono attendere rialzi pressori anche più significativi. Il buon senso dovrebbe pertanto consigliare di valutare opportunamente questo dato in sede anamnestica e, eventualmente, optare in questi pazienti per un’anestesia senza epinefrina. In caso di dubbio, una semplice misurazione pressoria potrebbe essere di aiuto. Come districarsi nella gestione delle terapie antiaggreganti e anticoagulanti L’uso incrementale, in via profilattica, della terapia antiaggregante nel paziente cardiopatico e, forse ancor di più, della terapia anticoagulante orale rappresenta spesso un problema di non facile risoluzione. Mentre per sottoporre un paziente a una chirurgia di qualunque genere è indicato il calcolo della stima del rischio tromboembolico ed emorragico mediante punteggi specifici, per le procedure odontoiatriche le evidenze in letteratura e le successive raccomandazioni delle linee guida puntano tutte nella stessa direzione: - Non interrompere i farmaci anticoagulanti orali, in specifico, sia in corso di terapia anticoagulante orale o TAO, che con gli anticoagulanti di nuova generazione; - Non sospendere la terapia con l’aspirina; - Comportarsi nel medesimo modo con doppia terapia antiaggregante nelle procedure dentarie semplici. Il management del paziente cardiopatico in terapia antiaggregante/anticoagulante, nelle procedure dentarie semplici, viene pertanto molto semplificato; è bene ricordare che tra le procedure dentarie semplici si devono includere: estrazioni singole o multiple fino a tre denti, fino a tre impianti, scaling e root planing, sondaggio, sutura gengivale, resezione apicale e alveolo-plastica. Va comunque ricordato che le procedure dentarie semplici hanno un rischio di sanguinamento variabile anche in funzione del profilo di comorbidità del soggetto, dello stato infiammatorio della mucosa orale al momento dell’intervento e dell’eventuale uso di altri farmaci antinfiammatori come i NSAIDS e i COX-2 inibitori e che procedure definite semplici possono, frequentemente, esitare in procedure più complesse. Infine, la buona pratica insegna che è possibile adottare procedure peri-operatorie e post-operatorie che controllano il rischio di sanguinamento; tra queste: minimizzare il trauma chirurgico, utilizzare fili di sutura riassorbibili per chiudere la ferita, comprimere con garza per 15-20 minuti dopo l’intervento, utilizzare localmente agenti coagulanti e non prescrivere farmaci anti-infiammatori nel post-operatorio. Patrizia Vivona, Enrico Gallazzi, Roberto Meazza, Michele M. Ciulla; Il Dentista Moderno settembre 2013.