Elementi utili per l’individuazione dei soggetti ad alto rischio di carie. Revisione della letteratura
Nella maggior parte dei Paesi occidentali, si è assistito, negli ultimi 30 anni, a una forte diminuzione dell’incidenza e della prevalenza della malattia cariosa, in special modo per quanto riguarda i bambini e i giovani adulti.
Sebbene i dati relativi alla situazione italiana, a causa dei metodi di rilevazione difformi e della frammentarietà della maggior parte delle realtà indagate, generalmente confinate a livello regionale, non permettano di delineare un preciso andamento epidemiologico nazionale relativo alla carie dentale, essi sembrano, però, suggerire un certo grado di riduzione della patologia anche nella nostra Nazione.
Ciononostante, la carie non è stata affatto eliminata nei Paesi industrializzati, dove, fra l’altro, si è reso evidente il fenomeno della polarizzazione di questa malattia: è venuta a crearsi, cioè, una vera e propria spaccatura tra la suddetta tendenza generale alla diminuzione dell’incidenza della malattia e il permanere di piccoli gruppi di soggetti che presentano una prevalenza della patologia significativamente superiore alla restante popolazione.
Quindi, mentre da un lato si è evidenziato un netto declino della malattia cariosa, determinato in primo luogo dai programmi di fluoroprofilassi, ma dovuto anche ad altri svariati fattori, quali il miglioramento dell’igiene orale e alimentare, delle condizioni socio-economiche e del rapporto tra dentista e paziente, dall’altro si è resa evidente la presenza di gruppi di soggetti ad alto rischio di carie, che sembra far emergere la necessità di una generale rivalutazione degli obiettivi e dei contenuti tecnici dei programmi di prevenzione odontoiatrica.
Nell’ambito della prevenzione primaria, infatti, acquista sempre maggior rilievo l’identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio che permette, riducendo significativamente i costi, di mettere in atto trattamenti preventivi personalizzati per i singoli pazienti e di diminuire, inoltre, l’incidenza globale della malattia.
Valutazione del rischio di carie
Per rischio, generalmente, si intende la probabilità che un determinato evento ha di realizzarsi all’interno di un dato periodo di tempo. Il rischio di carie è la probabilità che un individuo ha di sviluppare un certo numero di lesioni cariose e di arrivare a un certo grado di progressione della malattia in uno specifico lasso di tempo.
Un gruppo ad alto rischio di carie, quindi, può essere definito come quel sottogruppo di persone nel quale la probabilità di sviluppare lesioni cariose nel futuro è più alta di quella che ha la restante parte della popolazione. I soggetti appartenenti a tale gruppo, in altre parole, sono quelli che manifestano la più elevata cariorecettività, intendendo con questo termine la tendenza intrinseca dell’ospite e del dente a sviluppare carie.
Il concetto di cariorecettività è in buona parte vincolato a fattori modificabili relativi all’ospite e/o alla flora microbica: sulla cariorecettività individuale, conoscendo i principali fattori imputati, si può quindi intervenire con specifiche misure preventive per i singoli pazienti.
La valutazione del rischio di carie, inoltre, porta a un cambiamento di orientamento circa le strategie di intervento anche a livello comunitario. La strategia dell’alto rischio viene infatti a contrapporsi alla strategia della popolazione: mentre con la prima si cerca di proteggere maggiormente gli individui più a rischio, con la seconda l’obiettivo è il controllo delle cause della malattia su tutta la popolazione (un esempio può essere la fluorazione dell’acqua potabile).
La strategia della popolazione attuabile in luoghi ad alta prevalenza di carie, è stata ed è, tuttora, alla base dei programmi di prevenzione della maggior parte dei Paesi; essa presenta, però, gli svantaggi di non conferire grandi benefici a livello individuale e di non contribuire particolarmente alla motivazione personale alla promozione della salute orale. Inoltre, dato il fenomeno di polarizzazione della malattia cariosa sopra ricordata, questo tipo di approccio comincia a divenire discutibile in molti Paesi industrializzati.
Il costo della prevenzione della carie potrebbe essere enormemente ridotto e la sua efficienza sicuramente aumentata, mettendo in atto la strategia dell’alto rischio, secondo la quale è necessario innanzitutto procedere all’identificazione degli individui ad alto rischio di carie; quindi, è necessario prendere in considerazione tutte le misure preventive per cercare di ridurre la futura esperienza di carie dei soggetti a rischio.
Esistono, però, tre requisiti fondamentali per l’attuabilità di tale strategia:
– La prevalenza della carie, nella popolazione in esame, deve essere sufficientemente bassa da giustificare gli sforzi e le spese richiesti per identificare gli individui che, probabilmente, andranno a sviluppare un numero eccessivo di lesioni cariose;
– Devono essere disponibili test accurati, riproducibili, di facile uso e poco costosi per individuare i soggetti ad alto rischio;
– Gli interventi preventivi, che si attuano in questi gruppi di persone, per abbassare il loro rischio di carie, devono essere basati su metodi efficaci e realizzabili.
È il secondo requisito, cioè la possibilità di identificare i soggetti ad alto rischio di carie, a essere oggi al centro dell’interesse della ricerca e a costituire la prerogativa che più difficilmente si riesce a soddisfare: un’adeguata valutazione del rischio di carie, infatti, richiede l’utilizzo di test diagnostici che rappresentano l’applicazione clinica delle acquisizioni scientifiche degli ultimi decenni nel campo della cariologia e in quello della microbiologia orale. Lo scopo di questi test è, essenzialmente, quello di rilevare e valutare l’intensità d’azione dei fattori e degli indicatori di rischio presenti a livello individuale.
Conviene ricordare che la carie dentale ha un’etiologia multifattoriale nella quale giocano un ruolo fondamentale 3 fattori principali: l’ospite (saliva e denti), la microflora (placca) e il substrato (dieta). A questi si aggiunge un quarto fattore: il tempo, inteso come la durata d’azione dell’attacco batterico sui denti.
Non esiste alcun test diagnostico che riesca da solo a prendere in considerazione tutti questi parametri e che sia, quindi, in grado di fornire un’accurata valutazione della suscettibilità individuale alla malattia cariosa. Si ritiene, quindi, che l’adozione di modelli di predizione del rischio, che includano più test per valutare i vari indicatori, sia l’approccio più adeguato e moderno al problema.
Si propone quindi una rassegna degli indicatori di rischio che possono essere presi in considerazione per un’adeguata valutazione del rischio di carie; inoltre, si espone una breve presentazione degli studi sullo sviluppo di possibili modelli di predizione e, in conclusione, si cerca di fornire alcuni suggerimenti per l’utilizzo clinico della valutazione individuale del rischio.
Indicatori di rischio
Durante la visita al paziente, si possono distinguere 3 momenti utili per ottenere informazioni sufficienti sugli indicatori di rischio di carie: un’accurata indagine anamnestica, un meticoloso esame clinico, l’utilizzo di test salivari.
Anamnesi
Condizione sistemica. – La presenza di malattie sistemiche può influire sull’incidenza della carie, sia in modo diretto che indirettamente, per effetto della terapia. Numerose sono, poi, le condizioni sistemiche, patologiche e non, in grado di modificare la risposta dell’organismo ospite nei confronti della flora microbica del cavo orale e della placca in particolare.
L’ipofunzione delle ghiandole salivari, dovuta ai farmaci, all’età, alla radioterapia e alla chemioterapia, alla sindrome di Sjogren, al diabete mellito e a una lunga serie altre malattie sistemiche (anemie, epatiti, nefriti croniche poliuriche, sindrome di Down, lupus eritematoso sistemico, morbo di Parkinson), può causare un incremento della carie dentaria. La saliva, infatti, ha un ruolo protettivo primario nei confronti della carie: essa è un dei fattori dell’ospite più strettamente legato alla salute e, in particolare, alla cariorecettività.
La saliva agisce attraverso diversi meccanismi che, direttamente o indirettamente, influenzano l’ambiente orale: il flusso, ad esempio, ha un’azione di detersione meccanica; il pH intrinseco e il potere tampone, dovuto alla ricchezza di ioni bicarbonato, contrastano l’eccesso di acidità; il lisozima salivare, la lattoperossidasi, la lattoferrina, il complemento, la concentrazione di leucociti e di immunoglobuline secretorie (IgA) hanno un’azione antibatterica; anche il contenuto di fluoruri, eventualmente disponibili nella saliva, riveste un ruolo importante nel determinare la suscettibilità alla carie.
Pazienti affetti da depressione sono spesso trattati con antidepressivi triciclici che causano secchezza delle mucose orali. La depressione di per sé, poi, determina una riduzione della produzione di saliva; anche stress e ansia possono influire sulla quantità di flusso salivare; l’iposalivazione, inoltre, può essere causata da patologie intrinseche delle ghiandole salivari.
Malattie che richiedono specifici stili di vita e regimi alimentari a volte particolarmente cariogeni, quali possono essere la fibrosi cistica e la fenilchetonuria, sono in grado di influenzare l’esperienza di carie.
I soggetti tossicodipendenti sono sicuramente pazienti ad alto rischio, per le loro scadenti condizioni generali, il disinteresse per la salute e l’igiene orale, la ridotta produzione di saliva e la predilezione per gli alimenti ad alto contenuto di carboidrati.
Anche le donne in gravidanza sembrano essere maggiormente predisposte alla malattia cariosa: una sicura correlazione tra gravidanza e carie non è mai stata dimostrata, ma numerosi fattori (cambiamenti nella produzione ormonale, alterazioni del ricambio minerale, erosione acida dovuta all’emesi gravidica, abitudini alimentari errate, modificazioni della saliva, carente igiene orale), se non adeguatamente controllati, possono aumentare il rischio di carie nelle donne in stato interessante.
Alcune malattie sistemiche dell’età infantile possono influenzare negativamente la formazione dello smalto: una lunga serie di patologie infettive, dismetaboliche, e anche alcune terapie farmacologiche, che agiscono durante l’istogenesi del dente, possono determinare ipoplasie dello smalto e causare, quindi, una minore resistenza dei denti all’attacco acido.
I dati circa la prevalenza di carie in soggetti con handicap fisici o mentali sono, purtroppo, alquanto discordanti.
Assunzione di farmaci – O medicinali possono interferire con la patologia cariosa tramite vari meccanismi: possono determinare una variazione nella produzione o nella composizione della saliva; possono contenere carboidrati fermentabili, che aumentano la formazione della placca e la produzione di acidi; possono possedere un basso pH e, quindi, facilitare la formazione di un ambiente acido.
È opportuno sottolineare il fatto che i farmaci in grado di determinare ridotta secrezione salivare sono diverse centinaia e appartengono alle più svariate categorie farmacologiche: conviene ricordare gli anticolinergici, gli antidepressivi triciclici, gli antipertensivi, i diuretici, i FANS, i tranquillanti maggiori e minori.
Condizione socio-economica – La situazione socio-economica ha una rilevante influenza sulla prevalenza di carie. Vari studi, infatti, hanno sottolineato che individui appartenenti a un basso status socio-economico sono soggetti a più lesioni cariose di quanto non lo siano quelli che vivono in situazioni più favorevoli.
I parametri usati più comunemente per valutare la condizione socio-economica sono stati di tipo di attività lavorativa del padre o del capofamiglia e il livello di educazione di entrambi i genitori.
Non si è ben compreso il meccanismo che porta le classi sociali meno abbienti ad essere più soggette a carie; probabilmente, più fattori contribuiscono a determinare questo incremento: uno scarso interesse verso l’igiene orale; un tipo di dieta maggiormente cariogena; una ridotta attenzione alla salute orale e una minore considerazione dell’aspetto estetico.
Le differenze tra le classi sociali permangono anche se esiste un libero accesso a programmi di prevenzione gratuiti, anche se ciascun bambino riceve trattamenti preventivi a scuola e anche se l’intera comunità ha un approvvigionamento idrico con acqua contenente fluoro.
I parametri socio-economici non hanno dimostrato, comunque, particolare utilità per quanto riguarda la valutazione del rischio di carie nel singolo individuo.
Igiene alimentare – La dieta è un fattore di principale importanza nello sviluppo della malattia cariosa. La sua influenza, oltre che da meccanismi locali, principalmente legati alla presenza di carboidrati fermentabili e di cibi protettivi, è determinata anche da effetti sistemici, che possono modificare la composizione di smalto e dentina, mentre è in atto la formazione dei denti, o variare la qualità e la quantità di saliva prodotta.
La forte relazione tra consumo di zucchero e carie è stata dibattuta e documentata già dalla metà del secolo scorso: il vasto e importante studio di Vipeholm dimostrò sperimentalmente come un’assunzione frequente di zuccheri può causare modificazioni critiche della flora batterica nella cavità orale e, quindi, aumentare la formazione della carie.
Oggi non c’è dubbio che la quantità di carboidrati fermentabili ingeriti quotidianamente, la loro frequenza di ingestione, la consistenza del cibo, siano fortemente associate alla prevalenza di carie.
Sono stati svolti, tuttavia, studi che dimostrano come, nei Paesi industrializzati, ci sia solo una debole correlazione tra abitudine dietetiche e carie. È stato infatti chiarito che il rischio di carie aumenta significativamente con l’incremento del consumo di zuccheri, solo quando anche l’igiene orale è nello stesso tempo carente. Una recente revisione della letteratura ha mostrato che, oggi, grazie anche alla fluoroprofilassi, il rapporto tra consumo di zuccheri e carie è divenuto molto più debole di quanto sia stato finora.
Igiene orale – Si può avere un’idea dell’igiene orale del paziente già in fase di anamnesi, anche se poi sarà l’esame clinico a dare le maggiori informazioni.
Sebbene la placca presente sulle superfici dentarie sia il più importante fattore etiologico della carie, gli effetti delle misure di igiene orale sull’incidenza della malattia cariosa sono stati ritenuti controversi da molti Autori. Allo stesso modo, gli epidemiologi hanno fallito ogni tentativo di dimostrare una considerevole correlazione tra indici di placca e prevalenza di carie: probabilmente questa difficoltà è legata al fatto che i 2 eventi, presenza di placca e insorgenza di carie, avvengono con un considerevole intervallo di tempo l’uno dall’altro.
Comunque, nonostante tali discrepanze, la rimozione meccanica sistematica della placca dentaria è, sicuramente, in grado di ridurre l’incidenza di carie nei bambini, negli adolescenti e negli adulti. Un regolare spazzolamento con dentifrici al fluoro può, nei bambini, limitare lo sviluppo della carie, più di quanto può fare una riduzione dei cibi zuccherati nella dieta.
Fluoroprofilassi – L’uso costante di fluoro sia nei bambini, per via sistemica o topica, che negli adulti, tramite somministrazione topica, è senza dubbio di enorme importanza per il controllo e la prevenzione della carie. Numerose ricerche hanno concordemente dimostrato le proprietà cariostatiche dei fluoruri somministrati nelle varie forme.
L’assunzione di fluoro, per via sistemica, porta alla sua incorporazione nella dentina e nello smalto dei denti non erotti e, in misura minore, anche di quelli erotti da poco; la capacità, da parte dello smalto, di incorporare i fluoruri diminuisce, infatti, con l’età e con la maturazione dello smalto stesso, ma aumenta enormemente quando i tessuti duri del dente sono ipomineralizzati o demineralizzati a causa dell’attività acidogena dei batteri.
Il fluoro rende i denti più resistenti all’attacco degli acidi; inoltre, una volta assimilato, viene secreto nella saliva e, sebbene sia presente in basse concentrazioni, tende ad accumularsi nella placca dove inibisce la produzione di acido da parte dei batteri e aumenta la remineralizzazione dello smalto sottostante. In piccola parte, anche il fluoro proveniente dalla saliva viene incorporato nello smalto dei denti non completamente maturi, aumentandone la calcificazione.
L’esposizione dei denti a più elevate quantità di fluoro per mezzo di applicazioni topiche professionali di soluzioni o gel, o tramite l’uso domiciliare di dentifrici, collutori e sciacqui, favorisce tutti i meccanismi menzionati eccetto l’incorporazione pre-eruttiva nello smalto. L’azione locale dei fluoruri sulla superficie dentaria appare della stessa, se non maggiore, importanza dell’incorporazione nei tessuti duri durante la formazione del dente.
Dati gli enormi benefici apportati dal fluoro, è evidente come, nella determinazione su larga scala del rischio di carie, sia fondamentale ottenere notizie circa l’esposizione della comunità ai fluoruri.
Questa informazione è, comunque, meno utile e più difficile da ottenere a livello individuale.
Sono disponibili metodi per determinare la concentrazione di fluoro nello smalto, ma essi sono ancora troppo complicati per un utilizzo nella pratica quotidiana. Anche il contenuto di fluoruri nella saliva possiede qualche associazione con la suscettibilità alla carie, ma il suo valore su un piano diagnostico e preventivo è ancora in discussione.
Età – Generalmente si ritiene che la carie dentaria sia prevalentemente una malattia dell’infanzia e dell’adolescenza. Sono vari i motivi per cui i bambini hanno un maggior rischio di carie rispetto agli adulti.
Innanzitutto, il numero dei denti e delle superfici ad alto rischio varia in base alla maturazione dei denti stessi: una distinzione andrebbe, infatti, sempre fatta tra età cronologica ed età dentale. È bene ricordare che molte lesioni cariose si sviluppano nelle fossette e nei solchi di denti erotti da meno di 3 anni: l’assenza di carie sui primi e sui secondi molari permanenti nei primi anni dopo la loro eruzione è, ad esempio, un ottimo indicatore della salute dentale di un bambino.
Sembra che la maggiore suscettibilità dei ragazzi alla carie sia dovuta, oltre che alla non completa maturazione dei tessuti duri dentari, alla difficoltà nell’effettuare un’adeguata igiene orale su denti che ancora non raggiungono il piano occlusale e il contatto funzionale con gli elementi antagonisti.
Il rischio di carie sulla superficie occlusale dei denti posteriori è massimo durante e subito dopo l’eruzione di questi denti: tra i 6 e i 9 anni d’età, per i primi molari permanenti, e dopo i 13 anni per i secondi molari. La massima incidenza di carie sulle superfici approssimali dei molari permanenti si riscontra, invece, dopo i 12 anni.
Sesso – Vari studi epidemiologici mostrano una maggiore prevalenza di carie, a qualsiasi età, nel sesso femminile rispetto a quello maschile, anche se, generalmente, le donne dimostrano di effettuare una migliore igiene orale e di avere un minor numero di denti mancanti rispetto agli uomini.
La più precoce eruzione dentaria nelle bambine è stata spesso ritenuta il motivo della maggiore esperienza di carie nel sesso femminile; i dati sono, tuttavia, ancora discordanti e il sesso non acquisisce rilevanza nella determinazione del rischio di carie.
Esame clinico
Passata esperienza di carie – Per il rilevamento dell’esperienza di carie, generalmente, nella pratica si usa l’indice DMF-T (D: decayed, M:missed, F:filled e T:teeth; in italiano chiamato anche indice COM, cioè C:cariato, O:otturato, M:mancante) introdotto da Klein et al. nel 1938: durante la visita vengono individuati i denti cariati, mancanti o otturati per carie e viene assegnato il valore di 1 a ogni dente D, M e F. La somma dei valori dà il DMF-T per quel determinato individuo. Per la dentatura decidua si utilizza il dmf-t.
In effetti, con il rilevamento dell’indice DMF-T, da un punto di vista concettuale, si accerta la carioattività (o “esperienza di carie”) di un dato individuo, piuttosto che la sua cariorecettività, cioè la probabilità che egli continui a essere soggetto nel futuro a nuove lesioni cariose.
Tuttavia, è certamente più probabile che individui con un elevato DMF-T continuino a essere affetti da carie in maniera maggiore rispetto a quelli con un basso DMF-T: diversi studi hanno, infatti, indicato proprio questo parametro come l’indice più accurato nella previsione del rischio di nuove lesioni.
Per quanto riguarda la correlazione tra esperienza di carie in dentatura decidua e rischio di carie in quella permanente, sono stati effettuati molti studi.
Uno studio eseguito su bambini di 3 anni, controllati fino all’età di 6 anni, ha dimostrato un’alta sensibilità del parametro “passata esperienza di carie”, quando i bambini con carie erano considerati ad alto rischio, ma una molto bassa specificità. Allo stesso risultato sono arrivati anche Pelkwijk et al che, però, hanno provato come, variando il valore soglia dell’indice dmf-t oltre il quale si classifica il bimbo come soggetto ad alto rischio, cambino anche la sensibilità e la specificità del test. Essi hanno indicato come miglior criterio di screening un valore soglia dmf-t minore/uguale 5 a 6 anni, che fa predire, con una sensibilità del 69% e una specificità del 72%, una bassa o alta esperienza di carie a 11 anni.
Le lesioni cariose iniziali, più del numero dei denti otturati o cariati, sono maggiormente correlate col rischio di carie. L’inclusione del numero delle lesioni iniziali negli indici DMF-T o D-T, però, non ne aumenta l’accuratezza.
Può essere, inoltre, presa in considerazione anche l’incidenza di carie: il numero, cioè, di nuove lesioni cariose nell’unità di tempo (in genere 1 anno).
L’indice DMF-T ha, nel predire le future carie coronali, una sensibilità minore negli adulti che nei bambini.
Sembra, tuttavia, che ci sia una stretta relazione tra l’esperienza passata di carie sui denti permanenti e il rischio di sviluppare carie radicolari.
L’esperienza passata di carie è, tutt’oggi, il fattore predittivo che più comunemente si utilizza nella valutazione del rischio nei bambini e negli adolescenti e, secondo alcuni Autori, è la variabile a maggior predittibilità nei confronti dei soggetti da selezionare come a eventuale rischio di carie.
Esistono tuttavia seri svantaggi collegati a questo metodo.
Il più ovvio inconveniente è che varie lesioni cariose avranno già interessato la bocca dei soggetti, nel momento in cui essi vengono identificati come pazienti ad alto rischio.
Il metodo non è applicabile sui bambini più piccoli, quando interventi preventivi sarebbero desiderabili.
Bisogna sottolineare, inoltre, il fatto che, quanto più le misure preventive adottate divengono adeguate, tanto meno l’esperienza passata di carie mantiene la validità di fattore predittivo: se così non fosse, infatti, un paziente con molte otturazioni non sarebbe mai in grado di uscire dal “gruppo ad alto rischio”.
Anche il sistema che prende in considerazione le lesioni iniziali presenta degli inconvenienti: alcuni Autori sconsigliano l’utilizzo dello specillo ai fini della diagnosi di queste lesioni, raccomandando l’uso della siringa spray che eviterebbe l’ulteriore danneggiamento dei tessuti dentari, provocato dalla specillazione; inoltre, nuovi metodi per l’identificazione delle lesioni cariose iniziali sono in commercio e altri sono in via di sperimentazione, ma non sempre è possibile differenziare correttamente lesioni attive da lesioni non attive.
Morfologia dei denti. – Le facce dei denti più frequentemente sottoposte all’attacco da parte della carie sono quelle occlusali dei denti permanenti e, in particolar modo, sono state dimostrate più lesioni cariose nei solchi e nelle fossette dei denti posteriori che in qualsiasi altra sede; i primi molari, poi, sono, in assoluto, i denti a maggior rischio di carie, data la loro precoce eruzione, la lunga permanenza nel cavo orale durante l’età a maggior rischio, la loro posizione distale che non favorisce una semplice rimozione della placca.
Numerosi ricercatori hanno trovato una relazione tra forma dei solchi e prevalenza di carie. La capacità di trattenere la placca, più che la profondità dei solchi in senso assoluto, sembra avere una forte influenza sulla suscettibilità alla carie. Solchi ampi e poco profondi possono, in effetti, determinare una certa resistenza all’insulto carioso. Su queste evidenze si basa anche l’utilizzo dei sigillanti occlusali, che riescono a diminuire l’incidenza di carie nei siti più a rischio.
Con l’avanzare dell’età, l’abrasione delle superfici occlusali può causare una diminuzione dell’altezza delle cuspidi e della profondità solchi e, in questo modo, ridurre il numero di siti ad alto rischio di ritenzione. In questo senso, la dieta e le caratteristiche razziali possono avere un influsso indiretto sulla morfologia dei solchi.
Pur rivestendo questa relativa importanza nel processo carioso, il tipo e la profondità dei solchi sono stati ritenuti, da più Autori, di scarso valore nella previsione di carie; in un importante studio americano, tuttavia, la morfologia dei solchi e fossette, assieme ad altri indici clinici, è stata invece considerata fra le variabili che più contribuiscono a elevare l’accuratezza dei modelli di predizione del rischio.
Altre evidenze cliniche. – Altri indicatori di elevato rischio di carie sono tutti quei fattori che possono contribuire a incrementare l’accumulo di placca sulle superfici dei denti: affollamenti dentari, presenza di apparecchi ortodontici, di protesi parziali rimovibili, di ricostruzioni protesiche o conservative incongrue.
Secondo uno studio svolto in Finlandia, un bravo odontoiatra può essere in grado di raggiungere un buon livello di valutazione del rischio di carie, affidandosi esclusivamente al suo “senso clinico”, basato sulla visita clinica e sui dati ottenibili tramite un’approfondita anamnesi.
Test salivari
Come già accennato, la saliva è un fattore intimamente coinvolto nel mantenimento della salute orale.
I test per valutare la funzione salivare maggiormente utilizzati per fini clinici sono: la misurazione del flusso salivare a riposo e del flusso stimolato, la valutazione del pH salivare e la determinazione della capacità tampone della saliva. Questi 3 parametri sono facilmente indagabili in ambulatorio odontoiatrico: ai fini pratici, è certamente più semplice la misurazione del flusso salivare dopo stimolazione con bolo di paraffina che la raccolta della saliva a riposo, la misurazione del pH può essere agevolmente effettuata utilizzando una normale cartina indicatrice; per la determinazione della capacità tampone, esiste in commercio un test, denominato Dentobuff® Strip, che possiede una buona accuratezza e risulta particolarmente semplice da utilizzare.
A questi test salivari si aggiungono 3 test microbiologici che utilizzano la saliva per dare una stima della quantità di S. mutans, lactobacilli e lieviti presenti nel cavo orale. La correlazione tra la quantità di microrganismi presenti nella placca e la loro concentrazione nella saliva è stata ampiamente dimostrata e questo consente di trasferire le indagini alla saliva per trarre, più facilmente, informazioni circa la presenza di batteri e di funghi a livello dentale o mucoso.
La determinazione quantitativa dei microrganismi nella saliva, tramite metodiche classiche, quali la conta su piastra, era in passato talmente complessa e richiedeva così specifiche apparecchiature che questi test non erano praticabili in un normale ambulatorio. La commercializzazione di test microbiologici attuabili direttamente in ambiente odontoiatrico ha reso estremamente più semplice questo tipo di valutazione.
Nessuna delle misurazioni sopraelencate, purtroppo, risulta tanto sensibile e specifica da poter essere usata, singolarmente, per la diagnosi di alto rischio di carie: ognuna di esse indaga un solo fattore, tra i tanti implicati nella malattia cariosa e, pertanto, sono un loro coinvolgimento in un protocollo clinico può aiutare l’odontoiatra nel porre tale diagnosi.
Una combinazione di più test salivari, in aggiunta, può essere di enorme aiuto nel capire il perché un dato paziente è maggiormente suscettibile alla malattia cariosa e nel risalire, quindi, a una diagnosi di carattere causale.
Modelli di predizione
Da quanto fin qui riportato, appare evidente la complessità della determinazione del rischio di carie nei singoli pazienti: per giungere con certezza a una adeguata valutazione del rischio, infatti, tutta la lunga serie di indicatori di rischio dovrebbe essere presa in considerazione. Il problema ancora irrisolto, tuttavia, è quanti e quali di questi indicatori conviene considerare, quando, per esigenze di tempo, di praticità e per ragioni economiche, bisogna raggiungere un compromesso tra la situazione ideale di investigazione globale e la situazione che quotidianamente si presenta al clinico. Inoltre, resta ancora da capire l’importanza relativa da assegnare ai singoli indicatori di rischio.
Un perfetto indicatore di rischio dovrebbe possedere sia una sensibilità che una specificità pari al 100%; esso, quindi, non implicherebbe errori nella valutazione del rischio. Sfortunatamente, non esiste un indicatore per la valutazione del rischio di carie con tali caratteristiche: una certa proporzione di errore deve, comunque, essere sempre messa in conto. Non ci sono regole generalmente accettate su quale debba essere il massimo errore tollerabile; è stato suggerito, però, che, in un modello di rischio, prima che un indicatore possa essere considerato un legittimo candidato a essere utilizzato nelle misure di prevenzione individuale, la somma dei valori della sua sensibilità e della sua specificità dovrebbe arrivare almeno al 160%. Sebbene questa indicazione non tenga conto del fatto che errori relativi a una bassa sensibilità abbiano conseguenze diverse rispetto a quelli relativi a una scarsa specificità, essa può comunque essere utilizzata come punto di partenza per la valutazione dell’accuratezza dei marker per l’alto rischio di carie.
Sono stati attuati vari studi longitudinali per cercare di identificare modelli di predizione accettabili.
I numerosi indicatori, comprendenti variabili cliniche, batteriche, salivari e socio-economiche, sono stati analizzati e discussi da diversi gruppi di ricerca.
Già nel 1977, a conclusione di un Simposio internazionale, fu sottolineata l’estrema difficoltà nell’ideare un modello sufficientemente valido di predizione di carie.
Nel 1978, Rundegren et al. dimostrarono che la combinazione di più variabili fa aumentare la possibilità di selezionare gli individui ad alto rischio di carie all’interno di una popolazione. Il loro studio fu piuttosto limitato e i valori di sensibilità e specificità non furono riportati, ma l’idea fu poi sviluppata in studi successivi.
Nella relazione tecnica della Federation Dentaire Internationale (FDI) del 1988, l’uso di più indicatori di rischio è menzionato come il più promettente approccio per la determinazione del rischio di carie.
Uno dei più approfonditi tentativi di identificare modelli statistici per la valutazione del rischio di carie è stato fatto in relazione al “Caries Risk Assessment Study” dell’Università della North Carolina. Una rilevante conclusione raggiunta con questo studio è che non sembra attuabile l’idea di cercare un unico modello di valutazione del rischio, valido per tutte le classi d’età e per le differenti fasce di popolazione; sembra, invece, molto più realistica la possibilità di ideare diversi modelli di predizione, applicabili a diversi gruppi di popolazione.
Appare evidente, quindi, la necessità di nuovi studi longitudinali e di ulteriori ricerche, per identificare i modelli di predizione più attendibili da utilizzarsi nei vari Paesi, nelle differenti comunità e nei diversi gruppi d’età.
Conclusioni
Sebbene non sia stato ancora individuato un modello di predizione ideale da utilizzarsi a livello individuale, la valutazione dei più importanti indicatori di rischio, tramite l’anamnesi, l’esame clinico e i test salivari, può contribuire a migliorare lo stato di salute orale dei singoli pazienti e presenta una lunga serie di indicazioni.
Innanzitutto, grazie ai test oggi disponibili, l’odontoiatra è in grado di fare un’analisi più dettagliata della condizione orale del paziente e di chiarire quali siano i fattori maggiormente implicati nell’eventuale tendenza del soggetto a sviluppare numerose lesioni cariose.
Grazie a tutte le informazioni raccolte e all’analisi eseguita, la valutazione del rischio di carie, anche se non ideale, ha in ogni caso un’accuratezza tale da poter influire su alcune scelte nel piano di trattamento.
I risultati ottenuti possono indicare la necessità di intraprendere un programma intensivo di prevenzione e ulteriori misure di controllo della carie per quei soggetti giudicati ad alto rischio. All’interno del programma adottato, inoltre, può essere posta particolare cura all’eliminazione di quei fattori di rischio la cui azione, in quel determinato paziente appare particolarmente decisiva.
Il piano di trattamento può essere modificato anche per quanto riguarda le scelte del tipo di intervento conservativo o protesico da effettuare: il permanere del paziente in una condizione di elevato rischio di carie può, infatti, controindicare interventi particolarmente estesi e costosi. Anche prima di iniziare i trattamenti ortodontici è preferibile valutare il rischio di carie del paziente ed, eventualmente, intraprendere dei programmi preventivi specifici.
Anche la frequenza dei richiami per le visite di controllo è influenzata dal rischio di carie del paziente: i soggetti ad alto rischio dovrebbero essere sottoposti a frequenti controlli per monitorare la loro condizione e per valutare gli effetti del regime di prevenzione adottato.
Non va dimenticato che i test utilizzati per la valutazione del rischio di carie possono rappresentare, se correttamente utilizzati, un potente strumento di motivazione del paziente a collaborare al programma di prevenzione.
Infine, con questi test il clinico possiede accurati strumenti di controllo del grado di compliance da parte del paziente e dell’efficacia del programma preventivo adottato: l’odontoiatra può, infatti, monitorare il rischio di carie del singolo paziente e valutare, quindi, la necessità di modificare il programma preventivo o di sottoporre il paziente a un rinforzo motivazionale.
Giannoni M, D’Amario M, Gatto R, Barone A. Some tools for the identification of high caries risk individuals. A review. Minerva Stomatol. 2005 Mar;54(3):111-27.